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LA LEGGENDA DELL'AQUILA
Un’antica leggenda, a pochi nota, narra che una nidiata di aquilotti audaci si sia frapposta in volo fra il sole e il potente ma capriccioso padre Giove, mentre egli contemplava nel sole le vaghe sembianze della Ninfa prediletta.
Il Dio, da ciò grandemente infastidito, scagliò i suoi tremendi fulmini contro lo stormo incauto; e gli aquilotti, mutati in cagne guaiolanti, insieme precipitarono nel Mar Tirreno in uno spaventoso rovinio, che atterrì tutti coloro che si trovavano a navigare in quei pressi.
Tornata l’aquila madre al suo nido sull’Olimpo e trovatolo vuoto, sdegnata per gli eccessi del dio, chiese allo stesso di poter morire di dolore per la perdita dei suoi nati; o che, se ciò non fosse possibile a causa della sua origine divina, le concedesse almeno di andare lontano in cerca dei suoi aquilotti perduti e di poter vivere vicina ad essi.
Del che commosso Giove, accogliendo la prece della piangente madre, le permise di lasciare l’Olimpo. Volando giorno e notte, guidata dall’infallibile istinto materno, l’aquila si diresse verso il luogo di pena dei suoi piccini.
Mentre accorata e stanca per il suo lungo volare, decisa di posarsi, iniziava il volo di discesa, giunsero a lei chiari i segni della presenza dei suoi aquilotti nello specchio d’acqua sottostante. Balzatole di gioia il cuore in petto, osò, nel suo segreto, spregiare Giove, attribuendo a se sola, e non al maligno dio, l’abilità di ritrovare i dolci figli.
Ma, ahimè, - continua la leggenda – il dio si sente offeso e di repente scaglia contro la superba madre un nuovo fulmine punitivo: la folgore raggiunge immediatamente la misera, le rompe l’ala potente e le squarcia il ventre, subito tramutato in orrenda voragine.
Pago oramai della sua vendetta, Giove si ricorda della promessa fatta, e, per non essere fedifrago, permette alla infelice madre di adagiarsi sulle sponde tirrene. La testa , toccando terra, diviene uno scoglio impervio, alto sulla voragine del ventre, nel cui fondo possono penetrare solo i pesci, i flutti del vasto mare e le atterrite sirene. La nidiata di aquilotti, attratta dal tonfo orrendo, si narra che rimanesse impietrita e, per volere del dio, assumesse la forma di acuminati scogli conservando delle cagne il latrato, affinché, congiunto all’urlo di dolore della madre, formasse un suono spaventevole atto ad ammonire coloro che avessero ancora l’intenzione di contraddire il dio.
Dagli scogli acuminati il luogo fu detto “Scilla”; esso quindi nacque per volere del capriccioso Giove, corrivo all’ira, che, quando muove il capo e gonfia le ganasce, fa tremare l’Olimpo.
Questa leggenda fu forse suggerita dal fatto che Scilla – posta com’è, con regale magnificenza, in una delle più amene fratture della costa tirrenica riccamente scogliosa, all’imboccatura dello Stretto di Messina quasi come fosse una sentinella avanzata nel mare – sembra un’aquila. Molti la vedono infatti come “un’aquila d’argento, che vola alla distesa sopra un campo verde” ed altri come un’aquila discesa dal cielo a posarsi graziosamente adagiandosi con le ali spiegate rasenti le carezzevoli onde del mitico mare, il capo massiccio superbamente eretto verso l’alto, l’adunco becco proteso tra la forte scogliera per spezzare le correnti e sfidare i possenti marosi nei giorni di tempesta.
Il resto del corpo e la coda sarebbero rappresentati dall’altopiano lievemente degradante dalle falde al piede delle ultime colline dell’Appennino, che stanno a ridosso del paese e lo cingono in un amplesso protettivo.
Chi ben riguarda il paesaggio scillese trova che il particolare dell’ala, spezzata – secondo la leggenda – dal fulmine di Giove, ha riscontro nella natura del terreno. Al punto dove scorre il corso d’acqua del vallone Livorno, la stretta gola spezza l’altopiano, che al di qua limita il Paese con la zona di Bastia e al di là continua con il tratto della Lutra; “natura e leggenda qui aderiscono strettamente l’una all’altra fondendosi quasi insieme e generando una singolare topografia leggendaria e mitica, unica e tra le più suggestive”.
Tratto dal volume Scilla Aquila d'argento
©2001 Arbitrio Editori Sas - Testo di Clara De Franco.